È successo ancora una volta. Finisci di leggere tutto d'un fiato un altro libro di Katya Maugeri, giornalista e scrittrice catanese, che racconta storie di vita dentro e fuori le carceri italiane. Poi ti prende il dubbio se avere umana comprensione ed esercitare qualche forma di indulgenza possano mettersi sullo stesso piano del dispensare una esemplare punizione e comminare una pena severa. Meglio però lasciarsi con questo interrogativo e con il sottostante esercizio di pensiero critico e discernimento etico piuttosto che avere la certezza di trovarsi sempre solo dalla parte della misericordia oppure esclusivamente dall'altra, ovvero il giustizialismo.
La realtà è che dietro le sbarre ci sono persone che, in un modo o in un altro, hanno deciso di commettere un reato, conseguenza di scelte operate abbastanza consapevolmente, anche quando la loro volontà sembrava più labile, accecata dalla "polvere bianca", condizionata dal contesto territoriale o determinata dalle circostanze. Mettendosi in loro ascolto – come ha fatto la giornalista catanese – si scopre poi che quella decisione di delinquere, talora ribadita talaltra sminuita altre volte rinnegata al confine tra l'intendere e il volere, ha mille sfaccettature dietro.
"Ho pensato di essere quel tipo di persona che non ha bisogno di nessuno. O di cui gli altri hanno bisogno" – dice Piper, la protagonista di "Orange Is the new Black" (2014), il best seller autobiografico della Kerman che ha originato l'omonima serie televisiva di Netflix ideata da Jenji Kohan sulle donne in prigione e che potrebbe fare benissimo da premessa ai libri della Maugeri.
Quelle persone detenute, così fragili o, invece no, così forti per aver commesso reati anche gravi, hanno conosciuto in un'altra vita fuori dal carcere stenti e privazioni, violenze fisiche ed emotive, lotte per affermare ruoli di potere, sono state scippate dei loro sogni di normalità, ma hanno manifestato pure comportamenti arrendevoli, si sono lasciate andare e sono state disarcionate quando gli strumenti del male, e tra questi le droghe, si sono intrufolati tra le pieghe dell'umano agire. Ciò non vale a giustificare i loro comportamenti criminali, ma provare quantomeno a decifrarli, almeno quello sì.
Abbiamo letto "Tutte le cose che ho perso" (Villaggio Maori Edizioni, 2023, 106 pagine), uscito da una decina di giorni, che segue di qualche anno l'altro libro "Liberaci dai nostri mali" (Villaggio Maori Edizioni, 2019, 107 pagg.), con cui Katya Maugeri aveva iniziato il suo viaggio dentro le carceri italiane. Un viaggio lento e non affrettato, un po' come il cammino di Santiago di Compostela, in cui passeggiando e discorrendo i detenuti si aprono, si raccontano ed immaginano la destinazione. Dentro la casa di reclusione di Augusta, nel primo libro; appena fuori la casa circondariale femminile di Rebibbia in questo volume. Per mettersi in ascolto di uomini forti allora – l'uomo col cappello di paglia, l'uomo usignolo, l'uomo dal volto scoperto, l'uomo capitano, l'uomo dal profumo di zenzero, l'uomo dai ricordi di cemento e l'uomo ombra. Per far parlare donne altrettanto forti in questa occasione, poco fuori dalle celle in cui sono state recluse a Rebibbia: la 9, la 8, la 10, la 7, la 11, la 14 e la 28.
Ma i due libri, per quanto idealmente facenti parti di una trilogia che dovrebbe condurre ad un terzo volume sui minori in carcere, non sono paragonabili, sebbene lo stile redazionale della Maugeri sia sempre il medesimo, ovvero riportare, con l'aggiunta di considerazioni e precisazioni (le ore d'aria nel primo libro, le annotazioni personali nel secondo), il fiume di parole, talvolta emotivo altre volte più ragionato, che quelle persone in carcere sentono di voler proferire a tutti costi. Parole che rimbombano tra le fredde mura di un carcere, dove chi è detenuto può ritrovare sé stesso ma pure perdersi per sempre. Parole che risuonano anche fuori dal carcere, dove esistono le cosiddette "sbarre invisibili", cioè altri tipi di barriere divisorie tra gli spazi di civile convivenza che dovrebbero stabilirsi tra le persone.
Se nel libro "Liberaci dai nostri mali", uno dei temi tratteggiati sullo sfondo era la giustizia riparativa e dunque la sfida di provare a ripristinare relazioni e comunità danneggiate dal crimine; in "Tutte le cose che ho perso", una delle prime letture di genere sulla condizione carceraria femminile in Italia, è più chiara invece la consapevolezza che per le donne "piene di moltitudini" aver commesso un reato comporta una sofferta cesura col proprio passato, sia esso vissuto di affetti, amori, genitorialità, di relazioni e lavoro. E nonostante l'incidenza della carcerazione femminile sia appena il 4% del fenomeno, spesso per reati meno gravi di quelli commessi dagli uomini, la sofferenza "color rosa" richiede un supplemento di empatia in chi ascolta e prende nota sul taccuino in un incontro o una videochiamata. È una sofferenza diversa da quella maschile, non perché siano donne fragili, anzi talvolta è proprio il contrario; ma perché viene a mancare in loro la pienezza femminile, forse talora stereotipata, dell'essere mogli, compagne, mamme, figlie e talvolta anche zie e nonne.
Il carico emotivo associato all'incarcerazione è particolarmente pesante per le donne, alcune delle quali, per via della dipendenza da droghe, hanno rinunciato ad essere madri magari imperfette ma ugualmente presenti nella vita dei loro figli. Per loro si sono spalancate le porte di quelle celle che adesso il Ministero della Giustizia chiama "stanze di pernottamento" ma che pur sempre piccoli ed angusti spazi rimangono, e peraltro non affatto idonei a rispettare l'intimità delle donne.
La perdita della libertà, la separazione dai propri cari, la vergogna e lo stigma dell'incarcerazione e le condizioni difficili della vita in carcere comportano sempre un significativo stress. L'impatto emotivo in queste donne è davvero forte in alcuni casi: perdita di autonomia, di ruoli sociali e perfino di sicurezza ed infine la stigmatizzazione sociale, che può danneggiare l'autostima di queste donne e le loro relazioni sociali. Ad una donna che è stata in carcere difficilmente si toglierà questa etichetta appiccicata addosso dai pregiudizi.
La lettura del libro aiuta a scoprire che, oltre al prima, c'è un durante e c'è un dopo l'esperienza carceraria. Ma non sempre ci sarà un'altra vita fuori da quelle mura, se le sbarre continueranno ad essere invisibili.
Il durante comporta sgomento, paura, sofferenza, silenzi, parole spizzicate con le altre detenute, "sudore negli occhi" perché le lacrime si chiamano così, abbandono al "carrello della felicità" dove attingere agli psicofarmaci somministrati tre volte al giorno. Il durante richiederebbe luoghi, programmi e strumenti di recupero che in Italia non sono mai equiparabili a quelli sperimentati da Svezia, Canada, Norvegia tanto per citare qualche esempio di buone prassi nella rieducazione dei detenuti. Un carcere come quello di Halden è un sogno impossibile per il nostro Paese. Di norma, si dovrebbero implementare globalmente programmi di salute mentale e riproduttiva, di sostegno per la dipendenza e alla famiglia, di formazione professionale e istruzione, di gestione della violenza e dell'aggressività. Spesso accade, invece, che gli interventi, anche quando attuati con buona volontà, siano solo parziali e comunque risentono del sovraffollamento delle carceri italiane.
E poi c'è il dopo. Il baratro del dopo. Cosa succederà quando queste donne finiranno di scontare la loro pena e torneranno in libertà, ma rimarranno sempre incatenate nei pregiudizi, nei cortesi rifiuti e nei decisi dinieghi delle persone che rappresentano la cosiddetta società civile? "Ma fuori da dove?" si chiede la più anziana delle ex detenute intervistata. "C'è davvero differenza fra dentro e fuori"?
E così tornano in mente ancora una volta una frase di Piper Kerman in Orange Is the New Black. "È tutto temporaneo", dice la protagonista.
In questa temporaneità, sinonimo di instabilità e di precarietà, sta probabilmente il significato di vita delle donne detenute protagoniste del libro "Tutte le cose che ho perso" con cui Katya Maugeri ha ripreso il suo personale viaggio dentro le carceri italiane.