Chiusa la vecchia stagione lirica con Puccini (Tosca) il Massimo Bellini apre quella nuova ancora con Puccini; La Bohème questa volta. Un modo, indubbiamente, per puntare sul sicuro e sul recupero di un pubblico che venga attestato su una tranquilla tradizione; lapalissiano! Ma può un teatro dalla lunga storia, anche culturale, inaugurare con un titolo così scontato? Ci sembra che ormai tendano a prevalere ragioni di natura prevalentemente economica; l’interesse prioritario sembra quello di riempire il teatro (e, per carità, con Bohème il risultato è stato certamente ottenuto, nonostante le avverse condizioni atmosferiche) ma è questa la ‘mission’ di un ente che rimane pur sempre una struttura pubblica e non un’agenzia rock votata alla ricerca commerciale del guadagno? Tenere i conti in ordine è sicuramente legittimo ma senza per questo rinunciare ad assolvere un impegno culturale che, ci sembra, debba rimanere una direttrice fondamentale. Assecondare unicamente (o prevalentemente) il gusto più epidermico finisce con l’assopire la curiosità e, quindi, impoverire la crescita di una comunità.
Così, mentre il San Carlo di Napoli apre con un sontuoso ‘Don Carlo’ verdiano e l’Opera di Roma con un raffinato ‘Dialogue des Carmélites’ di Francis Poulenc (per non parlare del ‘Boris Godunov’ di Mussorgskij scaligero) Catania si mantiene su un più tranquillo filone popolare che sembra assecondare una implacabile nuova vocazione verso il teatro di provincia, ripudiando le aspirazioni dettate dal suo glorioso passato.
Detto questo non vogliamo pregiudizialmente stroncare nel merito artistico la produzione di Bohème che anzi, come vedremo tra poco, si è rivelata di tutto rispetto, ma porre degli interrogativi sulle ragioni di una scelta che riguardano il cartellone.
La produzione di Bohème cui abbiamo assistito proviene direttamente dal Massimo di Palermo che l’ha messa in scena fra il dicembre del 2021 e il gennaio di quest’anno riaffidando la regia a Mario Pontiggia che era stato già artefice dell’edizione 2015 (ripresa tre anni dopo da Angelica Dettori).
Con una scenografia nuova di zecca, realizzata da Antonella Conte, il regista Mario Pontiggia ha potuto questa volta muoversi in una Parigi da Bella Epoque, spostando quindi mezzo secolo più avanti l’ambientazione prevista da Puccini. Il frutto di questa scelta si è esplicitato nel secondo quadro, quello del Caffè Momus, con una certosina ricostruzione d’epoca che trovava riscontro nei grandi pannelli di Toulouse-Lautrec, ma anche in una rapida esibizione di can-can e nei coloratissimi costumi di Francesco Zito; ci chiediamo però se non si sia ecceduto nella caratterizzazione fin troppo vistosa e circense del giocattolaio Parpignol. Ma tant’è, il quadro sprizza comunque quella festosa gioia di vivere che nell’immaginario collettivo può farci pensare alla vigilia di Natale in una Parigi fin de siècle. Più morigerati ma a loro modo pur sempre grandiosi i due quadri estremi ambientati in una soffitta dall’ampia volta (altro che angusta soffitta…), con una bella macchina da scrivere vintage a disposizione di Rodolfo (per una volta potrà fare a meno di adoperare l’usuale penna). In piena sintonia con la più oleografica tradizione la barriera d’Enfer, dove i due innamorati, sotto una rada nevicata, decidono di lasciarsi ‘alla stagion dei fiori’.
La direzione d’orchestra di Fabrizio Maria Carminati non conosce indugi compiacenti, scorre lieve nei momenti più dolenti, asseconda con convinzione la melodia, esplode in tutta la tavolozza orchestrale quando la gioia divampa; è di un’accortezza che denota passione e conoscenza e l’orchestra è sempre pronta a seguirlo senza tentennamenti; così come peraltro il coro (istruito con grande accuratezza da Luigi Petrozziello) ed anche quello di voci bianche interscolastico “Vincenzo Bellini” (istruito da Daniela Giambra), i cui ragazzini conquistano la scena nel secondo quadro.
La compagnia di canto è di quelle su cui un direttore può contare per navigare in tutta tranquillità; niente divi o primedonne ma certezze di impegno e professionalità, come la Mimì di Valeria Sepe e il Rodolfo di Giorgio Berrugi; la prima tratteggia una donna sofferente ma non leziosa che trova nei momenti più lirici belle sfumature e magnifica tenuta di fiati, il secondo mostra chiarezza di fraseggio ed una bella musicalità che sfociano in salda consapevolezza vocale. La Musetta di Jessica Nuccio ben rappresenta i due aspetti umani del personaggio, ora pimpante ed estroversa (‘Quando m’en vo’) ora dolente e riflessiva, come nel finale. Il Marcello di Vincenzo Taormina è scolpito e flessibile al tempo stesso; George Andgulazde e Italo Proferisce completano degnamente la giovane compagnia bohemienne. Riccardo Palazzo è un divertente e colorito Parpignol mentre Andrea Tabili è impegnato nel doppio ruolo di Benoit e di Alcindoro senza scadere nella macchietta.
Una Bohème, in definitiva, di buona tradizione; e la commozione, alla fine, non può mancare, nel rispetto di Puccini.