“È l’opera che ho rappresentato di più nella mia vita – confida Gabriele Lavia nelle sue note di regia – è certo lo spettacolo più faticoso che abbia mai fatto…”. Da quella prima volta, quando a diciotto anni lo lesse ai suoi amici, le riprese lo hanno accompagnato costantemente per un’intera vita di attore: dal Festival dei due mondi di Spoleto (voluto da Giancarlo Menotti) al Teatro Eliseo, da Trieste alla pregevole trasposizione televisiva fino alla recentissima ripresa al Teatro Antico di Taormina (poco più di due anni fa); ed eccolo, ancora una volta, indossare la sua camicia di forza scenica per la Stagione del Teatro Stabile di Catania, alla Sala Verga. Stiamo parlando di quel piccolo, grande capolavoro di Fëdor Dostoevskij pubblicato dal narratore russo nel fascicolo di aprile 1877 del suo “Diario di uno scrittore” dal titolo “Il sogno di un uomo ridicolo”; un brevissimo racconto fantastico che condensa, in meno di trenta pagine, ciò che neppure un testo di teologia o di filosofia potrebbe fare meglio. Miracolo del genio assoluto!
Gabriele Lavia è un gigante in questa rappresentazione di cui non è solo protagonista ma anche traduttore ed adattatore; riesce nel miracolo di rendere teatro un racconto in prima persona, ‘semplicemente’ dando parola al protagonista, facendolo vivere di vita propria. La sua recitazione è un capolavoro di comunicazione, come pure il suo corpo e i suoi gesti sia pure apparentemente impediti dalla camicia di forza bianca che indossa; il biancore del volto e delle gambe fanno apparire la sua figura come un corpo in disfacimento che racconta della sua vita e della sua morte mescolando sogno e realtà perché, come lui stesso affermerà alla fine, “la nostra vita non è forse un sogno” (e, neanche a farlo apposta, torna prepotentemente alla mente “La vita è un sogno” di Caldéron de la Barca, cui abbiamo assistito proprio qualche giorno prima in un’altra memorabile rappresentazione teatrale). Qui il tema dominante è l’amore; il sogno dell’uomo ridicolo, o forse matto, è il vagheggiamento di un uomo sull’orlo di una depressione irreversibile, giunto al limite del suicidio, la cui indifferenza è scossa dall’incontro con una bambina in lacrime. Addormentatosi sogna la sua morte e il successivo ritrovarsi in un Eden cosmico dove tutti gli uomini vivono in una condizione di inconsapevole felicità. Il suo risveglio coinciderà con una rinascita dello spirito e la sua nuova missione sarà quella di predicare a tutto il mondo che il paradiso sarebbe raggiungibile in questo mondo solo che lo si volesse; l’essenziale sarebbe un ecumenico ‘amare gli altri come te stesso” . Peccato che per gli altri questo pensiero è una pazzia!
La scena fa da essenziale sfondo, con un tavolo, una poltrona (su cui siederà una sorta di alter ego del protagonista, impersonato da Lorenzo Terenzi) e il pupazzo in fattezze di bambina emblematicamente presente in un angolo della scena, mentre il suolo è una sorta di torba marrone putrescente su cui Lavia si contorce, rotola, sembra quasi affondare. Le luci di Giuseppe Filipponio fanno il resto.
Uno spettacolo che si sviluppa tutto d’un fiato fino alle battute conclusive quando, come una liberazione, ci si può consegnare ad un frenetico applauso senza soste. Da antologia!