Ancora Molière al teatro Brancati di Catania, dopo la fortunata inaugurazione della stagione con “Le intellettuali”. Questa volta con uno dei più conosciuti capolavori, quel “Malato immaginario” con cui il commediografo si congedò anche dalla vita, nel 1673, rischiando anche di farlo sulla scena mentre recitava da protagonista.
Sono stati tanti, nel tempo, gli allestimenti che hanno consegnato alla storia il lavoro di Molière e risulta quindi sempre più difficile per un regista d’oggi trovare una chiave di lettura che possa dire qualcosa di nuovo. Salvo Ficarra, adattatore e regista di questa edizione catanese ha cercato, per sua stessa ammissione programmatica, di “riportare il testo alle sue origini cercando con forza di ripercorrere lo spirito che animava Molière e la sua compagnia non solo al momento della creazione ma anche e soprattutto nella messa in scena”. Cerchiamo di capire in che senso e se c’è riuscito.
Partiamo da una considerazione essenziale: Il malato immaginario non è una Commedia ma una Comédie-ballet, particolare genere assai in voga nella Francia di Luigi XIV (per la cui corte Molière scriveva), alternativa tutta francese al dilagante teatro italiano, dal quale peraltro era sicuramente influenzato. La struttura originale del Malato immaginario prevedeva quindi tre atti in prosa, preceduti da un doppio Prologo e seguiti da tre Intermezzi (una commistione di balletto, canto, versi e prosa, con musiche). Le musiche originali erano del celebre compositore Marc-Antoine Charpentier. Ai nostri giorni la propensione registica è sempre stata quella di mettere in scena i tre atti trasformando la Comédie-ballet in Commedia ‘tradizionale’, depurandola dai personaggi presenti nei balletti, Pulcinella in primo luogo e poi pastori e pastorelle e, alla fine, un corteo di finti medici che, da attori, celebrano Argan quale novello medico.
Ficarra ha recuperato in qualche modo l’intermezzo finale concludendo la piece in danza e canto (è forse questo finale a giustificare le sue parole programmatiche?). Ciò che si avverte, poi, nel corso della rappresentazione è una tendenza a ‘calcare la mano’ sul versante della comicità, spostandola su un piano di vera e propria farsa, specie in riguardo ai vari medici che diventano vere e proprie macchiette. Che dire poi dell’adattamento di alcuni nomi quando, ad esempio, il professor Purgon diventa professor Cagherai (insieme al figlio Tommaso Cagherai) dando luogo ad alcune battute di esplicito cattivo gusto. Ancora, citare Ungaretti e Montale come esempi poetici non ci sembra aiuti a ‘riportare il testo alle origini’.
È vero che Molière scarica pesantemente sui medici e sulla medicina anche una personale frustrazione per la sua tubercolosi cui nessuno riesce a porre rimedio; è pur vero che la prosopopea dei vari dottori e farmacisti viene fortemente posta in discussione, ma sempre con sottile ironia perché, in fondo la sconfitta è anche di una medicina che, ai suoi tempi, si dimostra ancora impotente a curare in modo soddisfacente. Ridicolizzare senza sé e senza ma è stato forse il limite dell’allestimento catanese. Così facendo si è privata la Comédie dell’umanità che pur traspare a tratti nel testo molieriano, per virare verso un contesto di ispirazione quasi martogliana.
All’interno di questa visione non bisogna comunque sottovalutare i meriti di una compagnia agguerrita e divertente che aveva nell’Argan di Angelo Tosto un trascinatore di gran talento, affiancato dalla simpatica verve della serva Tonina, una travolgente Giovanna Criscuolo. E poi lo stuolo di medici, il farmacista, il notaio, impersonati da Cosimo Coltraro, Luca Fiorino, Emanuele Puglia e Giovanni Rizzuti. Anita Indigeno e Daniele Bruno ben rappresentavano la freschezza giovanile della coppia di innamorati, Angelica e Cleonte. Lucia Portale era la cinica e profittatrice seconda moglie di Argan, Belina. Filippo Brazzaventre, infine, era il ‘saggio’ fratello, consigliere del malato.
Le scene ed i costumi, assai caricaturali, erano di Francesca Cannavò, con il disegno luci di Afio Scuderi e i movimenti coreografici di Giorgia Torrisi Lo Giudice. Musiche di Lello Analfino; realizzatore video Nico Bonomolo che ha dato un piccolo ‘tocco’ di natura cinematografica. Produzione del Teatro della Città/CPT.
Applausi, ma senza entusiasmi.