“Sarabanda” è stato l’ultimo film del grande regista svedese Ingmar Bergman. Realizzato per la televisione nel 2003 riprende, a trent’anni esatti di distanza, “Scene da un matrimonio”, una serie TV in sei puntate, poi adattata per gli schermi cinematografici in una versione ‘ridotta’ ma pur sempre della durata di quasi tre ore. In “Sarabanda” ritroviamo la stessa coppia di sposi, poi divorziati, che si rincontra dopo tanti anni.
Sarabanda, innanzi tutto; un titolo non casuale dai precisi riferimenti musicali e questa non è una novità per Bergman. Danza dalle tarde origini spagnole la Sarabanda troverà il suo humus in epoca barocca ed in Bach il suo più geniale utilizzatore. Il musicista di Eisenach fu con tutta evidenza il prediletto di Bergman che lo utilizzò svariate volte nei suoi film. Consideriamo poi l’imprescindibile connessione della Sarabanda con la “Follia”, danza di origine portoghese il cui tema poteva costituire l’elemento melodico della Sarabanda. La Follia, poi, costituiva la base di composizioni autonome strutturate in ‘Tema e variazioni’ (celebri quelle di Corelli, Vivaldi, Haendel e lo stesso Bach). Ed ecco che il cerchio si chiude: Bergman struttura la sua Sarabanda come una partitura musicale in dieci quadri (il quinto intitolato Bach e l’ottavo Sarabanda), come fosse un tema e variazioni; ogni quadro vede alternarsi due dei quattro protagonisti, i quali tra loro intrecciano vari dialoghi, come in lente successioni, lascive, implacabili, dolorose, di una danza lenta in ¾ (Sarabanda, Follia…). Peraltro anche le “Scene da un matrimonio” erano articolate in episodi (sei) ed entrambi i lavori si concludono con Johan e Marianne che si mettono a letto augurandosi reciprocamente la buonanotte. E il ciclo si chiude definitivamente.
Se nelle “Scene” del 1973 l’analisi della dissoluzione della coppia lascia ancora uno spiraglio di speranza e di volontà di vivere, in Sarabanda del 2003 il percorso di Bergman giunge ad una conclusione distruttiva che non lascia scampo. È la fine delle relazioni umane, della vita che sfocia nel nulla della morte. Un pessimismo che giunge ad una vera e propria epica, più di Leopardi, più di Nietzsche, più di Schopenauer!
Al teatro Verga di Catania, per la stagione del teatro Stabile, abbiamo assistito ad una ripresa di Sarabanda dal rigore ineccepibile. Il regista Roberto Andò, utilizzando la traduzione di Renato Zatti, ha ripercorso pedissequamente il film di Bergman proponendo una versione lacerante e ancor più prosciugata; ha eliminato solo il prologo e l’epilogo rendendo la piece un vero e proprio teatro da camera, in cui la parola, i gesti, i silenzi, sono assoluti protagonisti. È una tavolozza di emozioni in cui amore, odio, rabbia, rancore, angoscia per la vita e per la morte; la vita in tutte le sue sfaccettature insomma, ma sempre e solo spietata, disperante, senza possibile redenzione.
I quattro interpreti sul palco scavano i personaggi in maniera prodigiosa; Renato Carpentieri, innanzitutto, una sorta di epico eroe nichilista nell’affrontare un angosciante Johan giunto ormai all’ultima soglia della vita tra paure e inaridita assenza di rimpianti. Elia Schilton, il figlio Henrik, mai accettato dal padre, instabile e possessivo nei confronti di una figlia, Karin, cui tarpa continuamente le ali; quest’ultima, interpretata da Caterina Tieghi con fremente ardore e passione è forse l’unico personaggio cui il futuro può ancora aprirsi, pur con scelte sofferte; Marianne, infine, la ex di Johan, cui Alvia Reale, offre la calma lucidità di una donna ormai spenta e disillusa dalla vita.
Le scene e le luci di Gianni Carluccio e i costumi di Daniela Cernigliaro rendono perfettamente l’ambientazione angusta e grigia degli interni nordici, con un perfetto congegno di pannelli scorrevoli. Le musiche di Pasquale Scialò (insieme al suono di Hubert Westkemper) sono appropriate nel riproporre Bach, Bruckner, Brahms. Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Biondo di Palermo.
Un pubblico particolarmente attento ha apprezzato il pur difficile lavoro applaudendo con grande calore.