È un Pirandello che lascia il segno quello proposto dal Teatro della città (in collaborazione con il Teatro Metastasio di Prato e Knuk Company) al teatro Brancati, affidato all’estro attoriale di Alessandro Averone, qui presentatosi anche come rigoroso e appassionato regista della piece. A Catania (al Teatro Stabile) ne abbiamo apprezzato il severo e professionale cammino attoriale degli ultimi 10 anni in due spettacoli di grande successo, “Il ritorno a casa” di Harold Pinter (1915) e “Crisi di nervi” (tre atti unici di Anton Cechov, 2025), entrambi al seguito del grande regista Peter Stein, apprezzandone il talento, frutto di una formazione sempre più difficile da trovare negli artisti della sua (giovane) generazione.
La commedia presentata è “Il piacere dell’onestà”, scritta da Pirandello nel 1917 intorno ad un espediente assai caro allo scrittore agrigentino, quello del matrimonio falso o per convenzione come già in Pensaci Giacomino (1916) e, due anni dopo in Ma non è una cosa seria.
La chiave di volta che regge l’intera commedia è l’onestà, almeno quella che si riteneva tale ai tempi di Pirandello; un’onestà assoluta che è quanto pretende il protagonista, Angelo Baldovino, per sé e per tutti i componenti della famiglia da lui accettata sposando una giovane donna, Agata Renni, sedotta da un marchese, Fabio Colli, deluso dai tradimenti della propria moglie. Oltre tutto dalla relazione clandestina è nato un figlio che Baldovino riconosce come suo.
Il susseguirsi degli eventi dimostrerà come il rigore assoluto del protagonista diventi sempre più insostenibile per tutti oltre che per sé stesso; sarà Agata a ritrovare un barlume di umanità decidendo di abbandonare l’amante e proseguire la sua vita, onesta, con il legittimo ed anziano coniuge di facciata.
L’allestimento punta su un equilibrato uso dei contrasti che accentuano, da un lato la ‘classicità, o meglio ancora la sua ‘immortalità’, dall’altro la modernità e attualità dei temi trattati. Le eleganti scene di Alberto Favretto sembrano rievocare un prezioso stile d’antan dominato dal rosso su cui si innestano i costumi settecenteschi di Marzia Paparini, salvo a fare ‘calare’ come un alieno, all’inizio e alla fine, il protagonista in abiti moderni, con giacca di pelle e occhiali da sole, quasi a volerne evidenziare la diversità, morale in questo caso, l’astrazione del suo essere…
Anche la musica, di Mimosa Campironi, vive di questa dicotomia: irrompe, all’inizio, con un barocco Vivaldi de ‘Le quattro stagioni’ immediatamente rielaborato in chiave elettronica, fino ad una centrale ‘Marcia funebre di una marionetta’, di Charles Gounod ed altri brani ancora che ‘tagliano’ in due tempi storici le varie scene.
La regia dello stesso Averone, curata nei minimi particolari, da poi agio ad una interpretazione che esalta il complesso testo pirandelliano, i suoi monologhi filosofici, l’apparente naturalità del suo dettato; e in questo l’Averone-attore (Angelo Baldovino) è assolutamente magistrale. Ed anche il resto della compagnia, peraltro, tiene alto il senso della recitazione pirandelliana, tra affermazione di apparenti verità e ‘maschere’ che la nascondono, tra necessità dell’apparire (per le convenzioni sociali) e onestà dell’essere e della coscienza: Il disagio quasi paranoico della madre, Laura Mazzi, e la presunzione del marchese Fabio Colli, Antonio Tintis; la disinteressata intermediazione del cugino Setti, un istrionico Mauro Santopietro ; la stralunata ed ingenua fede del parroco, Gabriele Sabatini. Il tutto viene sciolto alla fine, dalla dolce dichiarazione d’amore di Agata, Alessia Giangiuliani, che preferirà lasciare l’amante per seguire Angelo, suo marito.
Successo incondizionato.