Se l’uso della mano sinistra nel secolo dominato dall’Inquisizione era inequivocabilmente segno di possessione, ecco, Tino Vittorio, pur essendo destrimano, lo si può definire, per abuso, un intellettuale eretico del nostro tempo.
Burbero, estroso, generoso, emotivamente fazioso, fu per me l’amico della prima ora, quando, matricola all’università, iniziai il mio percorso di studi a lettere.
Avevamo una comune matrice, i nostri padri si conoscevano e frequentavano, complice il mare.
A guidare la mia formazione sul versante storico contribuì lui, al pari di Carlo Muscetta e di Antonio Di Grado, su quello letterario.
Dei gatti aveva l’attitudine a rintanarsi … in sé stesso, fino a diventare silenzioso per ore, impenetrabile per settimane, scontroso a ogni telefonata o aggressivo alle insistenze.
Quando gli recensii un saggio tematico riguardante Manzoni su i Vespri, rise della battuta inserita nel pezzo, circa l’affermazione la bibliografia valesse da solo l’acquisto del libro.
A quel tempo Tino Vittorio aveva già scritto tanto, spaziando dalla storia al costume, dal mare ai topoi della sicilianità.
Nel 1994, vado a memoria, ovvero tanto tempo fa, di fronte a una spaccatura a sinistra, in occasione delle elezioni alla provincia di Catania, con due pretendenti contrapposti, Andrea Scuderi e Maurizio Pellegrino, scelse di appoggiare Nello Musumeci, candidato, allora, per la neonata Alleanza nazionale. Divenne presidente Musumeci. E, subito dopo, Tino durante un soggiorno romano, a pranzo con Giampiero Mughini e me, spiegò come il congelamento a destra di un pezzo del paese fosse una follia tutta italiana. Prima e meglio di chiunque aveva capito i futuri equilibri dopo la caduta del muro di Berlino.
Di partita in partita, ci incontravamo al Massimino. Lui, da dilettante, calciatore dotato, amava il Catania. Soprattutto godeva, vezzo alla Gianni Agnelli, di vedere giocate di alta classe.
Veniva con me in tribuna stampa. Teneva il conto dei corner, delle ammonizioni. Con il quadrante guasto del minutaggio della partita, segnava il momento di ogni azione significativa.
Quando morì tragicamente suo figlio, Luca, qualche settimana dopo lo andai a trovare, passammo una giornata insieme andando a pranzo in una trattoria in piazza Sciuti.
Si leggeva nei suoi occhi un dolore cocente … lottava … reputo si domandasse dove, come e quando avesse sbagliato … ma non pronunciò una sola parola.
Avevo imparato in cinquanta e più anni di amicizia a comunicare con gesti, sguardi, atteggiamenti, come quando alla penultima materia, un secolo prima, io studente, seduto al tavolo degli esami, di fronte Gastone Manacorda, accanto Tino Vittorio, dopo avere risposto esaurientemente alle tre domande del Manacorda, fui invitato ad alzarmi e attendere a debita distanza, allora si usava così, la proposta di voto. Anche Vittorio si era allontanato. Trovai sul libretto degli esami un diciotto, con la firma del docente, accanto. In quel frangente rientrò Tino. Non tacque. Chiese conto al Manacorda, titolare della cattedra di storia contemporanea, lui assistente, delle diverse anomalie nell’attribuzione del voto. Chiunque al suo posto avrebbe taciuto, accettando il verdetto e evitando di intervenire in mia difesa, sostenendo io avessi risposto da trenta per ricevere, invece, un diciotto. Tra l’altro senza avere la possibilità di rifiutarlo per via del fatto fosse registrato sul libretto.
Mi rovinai la media, ma il legame con Tino divenne inscindibile, soprattutto quando, inflessibile, volle conoscere il motivo dell’ostracismo di Manacorda nei miei confronti. Quando gli riferii di averlo apostrofato, durante un dibattito, storico del Pci, mi iscrisse honoris causa, tra i suoi sodali. Lui, allora di idee comuniste, amava mettere in discussione le certezze, mettendosi in gioco, per primo lui.
Negli ultimi anni, ci incontravamo spesso in libreria. Appuntamenti immancabili, allorché veniva pubblicato un libro ad ambedue gradito. Io, gli regalai la traduzione dell’Ulisse di Gianni Celati. Ma lui mi prese in giro, affermando mi costasse troppo mantenere l’amicizia. Ricambiò con Il mulino di Amleto di Giorgio de Santillana.
Durante gli anni del mio lavoro a Roma, tornavo a Catania nei fine settimana, ci si vedeva di sabato. In occasione di una venuta in città di Fino Giuliano, comune amico residente a Praga, bevemmo e mangiammo in prossimità dei Quattro canti, nel locale di Gianni, simpatico cultore di libri e di nostalgici ricordi del Ventennio. Alla fine, dopo una scorpacciata di arancini e un assaggio di pasta al forno, posammo per la fotografia di rito, Gianni il braccio alzato per il saluto romano, io, il pugno chiuso, Tino al centro a mostrare con il classico gesto, il simbolo della … femminilità.
Abbiamo riso insieme tante volte, sorriso degli eccessi, non solo in quell’occasione, e ci siamo intristiti, reciprocamente complici della caducità della vita.
Ciao, Tino.
angelo mattone