È stato uno dei più grandi direttori d’orchestra del Novecento, per molti il numero uno, contendendo il primato all’altrettanto grande Arturo Toscanini, ma la sua vita controversa è stata anche al centro di accesi dibattiti. Wilhelm Furtwängler, artista del Terzo Reich o musicista indipendente la cui ‘colpa’ è stata quella di non opporsi apertamente al nazismo, rimanendo in patria mentre il mondo scivolava verso l’abisso della seconda guerra mondiale e dell’Olocausto?
Lo scrittore sudafricano (poi vissuto in Inghilterra fino alla sua morte) Ronald Harwood ha posto il problema (peraltro rimasto insoluto) nel suo dramma Taking sides, scritto nel 1995, letteralmente ‘Prendere posizione’ ma tradotto in italiano “A torto o a ragione” (ma anche “La torre d’avorio”), proposto ora al teatro Stabile di Catania per la regia di Giovanni Anfuso.
Il testo di Harwood prende spunto dal reale processo subìto dal musicista nell’immediato dopoguerra, immaginando quanto poté avvenire durante alcuni interrogatori preparatori condotti dal Maggiore statunitense Steve Arnold. Il processo finì in realtà con l’assoluzione dell’artista ma la frattura creatasi fra il prima e il dopo, segnò profondamente la vita e l’attività successiva del direttore d’orchestra (morirà nel 1954) al quale, fra l’altro, fu impedito di dirigere negli Stati Uniti. Al di là del singolo caso, visto come esemplare, quello che interessa il drammaturgo è cercare di cogliere il contrasto tra due visioni del mondo: da un lato quella rappresentata dal Maggiore americano, materialista, ignorante, aprioristicamente votato a dimostrare un presunto collaborazionismo a tutti i costi, dall’altro lato le ragioni del musicista che intende affermare l’indipendenza dell’arte dalle ragioni della politica, indubbiamente radicalizzata (e soggetta a compromessi) in un regime dittatoriale come quello nazista. Non era un’impresa da poco e la scelta drammaturgica dello scrittore è stata quella di esporre i fatti senza ‘prendere posizione’ (ma è proprio vero?). La coraggiosa sfida registica di Giovanni Anfuso (basatasi sulla storica traduzione di Alessandra Serra) è stata affrontata e superata mantenendo lo stesso assunto ‘grigio’ di Harwood e ben caratterizzando la psicologia dei personaggi, resi con evidente impegno e partecipazione da Stefano Santospago, che era un sempre dignitoso Furtwängler, pur schiacciato da lacerazioni esistenziali che ne mettevano a dura prova la coscienza, e da Simone Toni, il quale riesce a dare al Maggiore americano una lettura a tutto tondo, altalenante fra certezze persecutorie e visioni oniriche di lacerazioni vissute quasi sulla propria pelle. Giampiero Cicciò era il violinista di seconda fila dei Berliner Philarmoniker (l’orchestra di Furtwängler) Helmut Rode, infiltrato di regime durante la guerra e, adesso, ben disposto a mettersi al servizio del Maggiore; Liliana Randi una stralunata e ‘vaga’ Tamara Sachs; Roberta Catanese la segretaria Emmi Strabe; Luigi Nicotra il Tenente David Willis; tutti bene in parte.
Resta il problema di fondo: può l’arte, e in particolare la musica, porsi al di sopra dei condizionamenti imposti da una dittatura, senza restare complice? E cosa può fare se si decide di restare in patria piuttosto che fuggire all’estero? Cosa ha spinto Thomas Mann a lasciare la Germania e Igor Stravinskij l’Unione sovietica mentre, per esempio, Dmitrij Schostakovich rimaneva in patria tra condanne e ‘riabilitazioni’?
L’angusta e tenebrosa scena di Andrea Taddei, con tanto di rovine di guerra in prospettiva, e i severi costumi di Isabella Rizza, restituivano la giusta luce all’insieme (luci di Antonio Rinaldi), corroborati dalle spigolose e drammatiche musiche di Paolo Daniele (cui si aggiungevano, in originale, Beethoven e Wagner nei momenti topici).
Frutto di una preziosa collaborazione fra Teatro Stabile di Catania, Fondazione Teatro di Roma e Teatro Vittorio Emanuele di Messina, lo spettacolo ha catturato l’attenzione del pubblico catanese. Teatro di riflessione potente che lascia spazio alle più diverse scelte interpretative.